
In queste settimane, i produttori italiani di birra sono sul piede di guerra. Il motivo è la recente decisione (peraltro ancora in discussione) di incrementare le accise sul più diffuso e leggero degli alcolici: la “biondaâ€, infatti, rischia di essere gravata da un aumento di tali tributi, i quali, bene ricordarlo, partecipano alla base imponibile dell’IVA, creando quindi in aggiunta il perverso effetto secondario di un’ulteriore imposta sull’imposta.
L’idea è in realtà a carattere temporaneo: si tratterebbe di reperire fondi immediati per finanziare il sostegno ai portatori di handicap. Per i produttori di birra, però, il timore è che tale misura provvisoria finisca per diventare di fatto definitiva; un timore niente affatto infondato, considerato che ancora oggi paghiamo un’accisa sulla benzina destinata a finanziare le guerre d’Africa, la cui efficacia è stata continuamente prorogata sebbene l’Italia non abbia più colonie nel Continente Nero da una sessantina d’anni.
Già oggi, peraltro, i nostri produttori pagano imposte sul prodotto molto superiori a quelle dei nostri più diretti concorrenti europei. L’aumento delle accise necessariamente condurrebbe ad un incremento del prezzo finale di vendita, rendendo le nostre bevande meno competitive.
Il rischio, in realtà , non ricade tanto sui colossi che dominano il nostro mercato: Peroni, Heineken (che ingloba fra l’altro anche Dreher e Moretti), Nastro Azzurro. Il vero problema è per le decine e decine di piccoli birrifici sparsi sul territorio nazionale: tutti insieme presidiano appena l’uno percento del mercato, ma danno lavoro a migliaia di persone.