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Dai co.co.co. ai contratti a progetto (I)

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Per molti anni nelle aziende italiane si èdiffusa una figura di lavorativa atipica, quella del collaboratore coordinato e continuativo. Il termine “atipico”, al contrario di quanto si pensa, non significa affatto “lavoratore non a tempo indeterminato” o “flessibile”: si faceva infatti riferimento al fatto che si tratta di una figura che non ètipizzata, ossia che non esistessero leggi che ne decretassero diritti e obblighi.


Questi ultimi sono stati dunque determinati nel corso degli anni dalla prassi, dalle forze di mercato, dalle capacità  contrattuali dei singoli. Solo in tempi recenti, con la legge Biagi (L. 30/2003) e il suo decreto attuativo si sono finalmente chiarite molte cose in merito.

Il discorso dei co.co.co. ha iniziato ad emergere nel 1973, con la riforma del processo del lavoro. In quell’occasione sono state stabilite alcune regole procedurali a tutela della parte debole, e cioèil lavoratore subordinato, e si èfissato che queste norme (dirette ad assicurare snellezza, rapidità , tentativo di conciliazione obbligatoria, concentrazione delle udienze, inversione dell’onere della prova a carico del datore) fossero estese a tutela anche di quei lavoratori legati a rapporti di “collaborazione coordinata e continuativa” con l’impresa.


Per circa trent’anni si sono date molte definizioni a questa criptica formula del tutto nuova usata dal legislatore, identificando codesti co.co.co. come quei lavoratori teoricamente autonomi (e quindi privi di vincoli di orario e formalmente indipendenti nello svolgimento della mansione) e tuttavia di fatto dotati di forza contrattuale molto debole e dunque persino pi๠indifesi di un comune dipendente.

Anche il legislatore fiscale èintervenuto in merito, stabilendo nel 2001 che i relativi compensi sono assimilati non a quelli dei professionisti bensଠa quelli dei dipendenti; ma ècon la legge Biagi che si èavuta la vera rivoluzione.