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Conciliazione e arbitrato dopo il collegato lavoro

La legge n.183 del 4 novembre 2010, meglio conosciuta come riforma Sacconi, ha ridefinito completamente la procedura di conciliazione e arbitrato in caso di controversie sul lavoro.

Dopo la riforma, infatti, il tentativo di conciliazione prima del ricorso al giudice non èpi๠obbligatorio ma diventa facoltativo in caso di mancata certificazione dei contratti di lavoro, di conseguenza sia nel settore pubblico che in quello privato le parti possono scegliere di ricorrere direttamente al giudice.


Al contrario, invece, in caso di contratto certificato le parti prima di ricorrere al giudice sono obbligate al tentativo di conciliazione presso la stessa commissione che ha effettuato la certificazione.


La riforma Sacconi ha anche modificato la disciplina del cosiddetto arbitrato irrituale, a cui le parti possono scegliere di ricorrere per risolvere velocemente la controversia. In questo caso, infatti, viene chiesto di emettere un verdetto ad un’apposita commissione composta da un rappresentante per ognuna delle parti e da un presidente scelto di comune accordo e che deve essere un professore universitario in materie giuridiche o un avvocato cassazionista.

La commissione emette il suo verdetto secondo equità , ossia anche senza tener conto delle leggi e del contratto collettivo, fermo restando il rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e degli obblighi comunitari. Il questo caso la commissione deve emettere la sua decisione (chiamata lodo) entro 20 giorni. Il lodo èinappellabile per quanto riguarda il merito e puಠessere annullato dal giudice solo per vizi di procedura. Le parti possono ricorrere all’arbitrato sia nel settore pubblico che in quello privato.

La legge ha anche modificato i costi dell’arbitrato, che diventa particolarmente oneroso e quindi in alcuni casi quasi inaccessibile per i lavoratori che dispongono di un reddito piuttosto basso. La normativa dispone infatti che cinque giorni prima dell’udienza il datore di lavoro e il lavoratore debbano versare per metà  ciascuno il compenso spettate al presidente del collegio e che èpari al 2% del valore della controversia dichiarato nel ricorso. Sia il datore di lavoro che il lavoratore, inoltre, devono pagare il rispettivo rappresentante con un compenso pari all’1% del valore della causa.