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Deduzione delle spese nei paradisi fiscali

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Fra le numerose norme antielusive presenti nel nostro ordinamento tributario, una delle pi๠importanti ècontenuta nell’art. 110 del DPR 917/1986, analizzata a fondo nella recente circolare 46/2009 dell’Agenzia delle Entrate.

E’ stabilito che un’impresa puಠdedurre dal reddito gli oneri relativi all’acquisto di beni e servizi forniti da soggetti residenti in Paesi iscritti nella famigerata “black list” del Ministero delle Finanze, e cioèi paradisi fiscali, soltanto se l’imprenditore stesso dimostra che quel dato fornitore svolge effettivamente al suo Paese un’attività  economica, che la spesa si èverificata veramente e che vi sono state reali ragioni aziendali che hanno motivato tale acquisto.


In altre parole, mentre solitamente èl’Amministrazione Finanziaria che deve impegnarsi a trovare validi indizi per confutare la deduzione di spese ritenute fasulle, in quest’ipotesi abbiamo l’inversione dell’onere della prova a danno del contribuente, ed èun onere tutt’altro che agevole da affrontare.
Ma non basta: èanche stabilito che nella dichiarazione dei redditi tali spese devono essere indicate a parte, in un apposito prospetto.


Fino ad un paio di anni fa era stabilito che la mancata indicazione separata impediva la deduzione di tali oneri: ora questa gravissima conseguenza èstata soppressa, ma il contribuente distratto deve comunque pagare una sanzione pari al 10% dell’ammontare complessivo di questi costi, fra un minimo di 500 euro e un massimo di 50.000.

Per quanto invece riguarda la mancata esibizione delle prove sull’effettività  e sulla funzionalità  di tali spese, la conseguenza èl’illecito di “dichiarazione infedele”: gli oneri sono valutati indeducibili, conseguentemente cresce l’imposta dovuta e in pi๠èapplicata una sanzione variabile fra il 100 e il 200% della maggiore imposta cosଠdeterminata.