L’ente competente notifica la sua interpretazione al contribuente entro centoventi giorni. Essa, che confermi..
Nel nostro Paese vige sempre la libertà di interpretazione: le risposte agli interpelli sono “documenti di prassi”, cioè tali da persuadere i cittadini a seguire un certo comportamento, ma senza comunque vincolarli. Oltretutto, nemmeno l’ente è tenuto ad uniformarsi, tanto che è frequente che di fronte a due distinti interpelli, il medesimo ente cambi idea e fornisca un’interpretazione diversa su un caso identico a quello già valutato a suo tempo.
Il contribuente potrà dunque sentirsi libero di uniformarsi o meno all’interpretazione offerta dall’ente. Ma esiste una differenza notevole rispetto al già descritto caso della consulenza rispetto ad una domanda di carattere generale, ed è legata all’onere della prova.
Qualora, infatti, il contribuente scelga di non uniformarsi al parere ricevuto e successivamente dovesse sorgere un contenzioso, la legge stabilisce una presunzione a favore dell’ente. Toccherà dunque al contribuente dimostrare le sue ragioni e giustificare il fatto di non essersi uniformato alla risposta ottenuta.
Ma anche l’ente può fare altrettanto. Può cioè offrire una data interpretazione al contribuente e successivamente rinnegarla, contestandogli il comportamento che egli (pur in buona fede) ha posto in essere uniformandosi al parere; in questi casi, comunque, non ci sono mai sanzioni a carico del contribuente. E naturalmente stavolta toccherà all’ente dimostrare perché il comportamento tenuto dal contribuente andrebbe contro le norme esistenti.
Nell’ipotesi, infine, di mancata risposta entro centoventi giorni vale il principio del silenzio-assenso: il contribuente è libero di interpretare la legge come ritiene corretto e comportarsi di conseguenza. In caso di successive controversie, l’onere della prova toccherà all’ente e comunque il cittadino non è mai sanzionabile.